Introduzione alla biosistemica
Presenterò la biosistemica nel modo più semplice e concreto, consapevole del rischio di ridurre la complessità della materia affrontata. Occorre però, soprattutto nella presente congiuntura di crisi, aprire alla comprensione comune, in particolare ai non addetti, il punto di vista biosistemico.
1. Perché la biosistemica aiuta (e come)
Il mio tentativo muove dalla seguente domanda:
Quando decidiamo di rivolgerci ad un esperto nelle relazioni di aiuto – counselor, psicologo, psicoterapeuta che sia – in quale situazione esistenziale ci troviamo?
Certamente, al di là dei singoli problemi che ognuno di noi porta nella relazione di aiuto, quel che ci accomuna è la consapevolezza di un disagio, di una sofferenza, presenti come “vissuto emotivo“.
La biosistemica tratta, nello specifico, il nodo della sofferenza emotiva a partire da assunti teorici di matrice diversa: scienze neurali, biologia e fisiologia delle emozioni, psicoterapia a mediazione corporea e pensiero sistemico entrano di fatto, sia nella teorizzazione di riferimento che nel metodo biosistemico. Per mettere a fuoco la teoria e la pratica biosistemica, partiamo dalla biologia e fisiologia delle emozioni: come funzionano e cosa sono le emozioni, per comprenderne il funzionamento ottimale e la disfunzionalità, che genera dolore e sofferenza.
2. A cosa servono le emozioni (e cosa sono)
Vi sono diverse tassonomie delle emozioni primarie. Adotterò quella che ha raccolto il più ampio consenso a livello scientifico e che le identifica nelle seguenti coppie: rabbia e paura, tristezza e gioia, sorpresa e attesa, disgusto e accettazione (Robert Plutchik; il suo Psicologia e biologia delle emozioni, 1995). Tali emozioni si definisco primarie in quanto non sono dipendenti dai contesti socio culturali. Sono infatti programmate e livello neuro-biologico con lo scopo di permettere l’evoluzione filogenetica, quindi della specie e ontogenetica, del singolo individuo. A differenza delle emozioni secondarie, si esprimono in forme stereotipiche che non subiscono variazioni da soggettive o riferibili alla diversità degli ambienti culturali. Le modalità espressive di tali emozioni sono universalmente riconoscibili senza fraintendimenti.
Un’emozione è autentica (o, in altri termini, un “processo completo“) se presenta tre componenti distintive:
- una sensazione/percezione interna o esterna che attiva la nostra chimica e fisiologia corporea,
- un riconoscimento consapevole della situazione che viviamo,
- l’azione conseguente.
Questi tre momenti sono intimamente interconnessi e li distinguiamo solo per giungere ad un primo punto “forte” del pensiero biosistemico: l’emozione è un ciclo integrato di esperienze che ci “muove verso …” un certo tipo di azione: attacco o fuga nella paura, espressione del nostro disaccordo nella collera, manifestazione della nostra gioia ecc. Le diverse teorie sulle emozioni si sono interrogate su cosa sia l’emozione e quali le parti del cervello coinvolte. Riassumo, per semplificare, la diversità degli approcci in una domanda:
Fuggiamo perché abbiamo paura? Oppure, abbiamo paura perché fuggiamo?
3. La paura aiuta a correre (e a pensare)
La domanda pone un prima e un dopo che risultano importanti ai fini della sopravvivenza della specie: il nostro cervello antico, il più veloce nel processare le emozioni primarie, di fronte ad un pericolo ci muove alla fuga, o all’attacco. In questo processo non viene “interpellata” la neocorteccia, la parte più recente del cervello: in altre parole, non è necessario comunicare al cervello recente “c’è un pericolo: fuggi!”
Tuttavia la neocorteccia ha la possibilità di “pensare la paura” e di provare paura pensandola e immaginando eventi e situazioni paurosi, provocando nel corpo tutte le risposte chimiche (adrenalina) e fisiologiche (accelerazione del battito cardiaco, del respiro e della circolazione sanguigna) idonee a farci scappare o attaccare (Antonio Damasio).
Conclusione: le due risposte sono entrambe corrette. L’emozione segue due strade:
- la prima, bottom-up, dalla parte bassa e più antica del cervello, il tronco encefalico, alla parte alta, la neocorteccia nel caso in cui il pericolo reale impone una risposta immediata;
- la seconda, top-down, dalla parte alta, la neocorteccia, rimbalza al tronco encefalico, nel caso in cui la nostra paura nasca dal pensiero consapevole.
Secondo Stanley Schachter (http://it.wikipedia.org/wiki/Stanley_Schachter), lo studioso che ha formulato la teoria, le componenti fisiologica e psicologica sono intimamente connesse nell’innesco dell’emozione e nello stato emotivo sperimentato e tale connessione porta a etichettare in maniera appropriata ciò che si sta vivendo e ad agire di conseguenza.
In uno suo esperimento, lo studioso ha somministrato adrenalina a dei soggetti senza spiegare loro di che sostanza si trattasse e quali fossero gli effetti. Gli stessi soggetti, posti successivamente a contatto con stimoli emotigeni, tendevano ad associare lo stato di attivazione fisica che sperimentavano, causato dall’adrenalina, alla situazione che stavano vivendo. Producevano di conseguenza a ciò, un’intensificazione delle risposte comportamentali di tipo emotivo. Il gruppo di controllo, informato invece degli effetti dell’adrenalina, non manifestava nessun tipo di attivazione.
L’emozione paura – ma anche la tristezza, la gioia, il disgusto, la rabbia, ecc. – è quindi un “espediente” che ci ha permesso, nel corso dell’evoluzione, di salvarci come specie e di sperimentare un range di vissuti somato-psichici che vanno dall’attivazione della chimica corporea all’azione espressiva.
Ora vediamo come questo range si collega ad una sorta di taratura di base del nostro arousal – attivazione / eccitamento corporeo – (“is a physiological and psychological state of being awake or reactive to stimuli”, termine parzialmente traducibile con “risveglio“; per approfondire: http://en.wikipedia.org/wiki/Arousal) che connota la nostra capacità di emozionarci; tale range determina la nostra finestra di tolleranza alle emozioni (Maurizio Stupiggia).
Di conseguenza e per mezzo delle emozioni noi corriamo, piangiamo, ridiamo, facciamo, lavoriamo; in una parola, viviamo, costruendo il nostro mondo interno ed esterno. L’emozione è completa quando le tre fasi che la compongono vengono vissute in modo integrato e non vengono scisse nel corso della nostra storia di vita.
Va detto che alcune emozioni, ad esempio la paura, ma anche la collera e la gioia, producono “attivazione” corporea per mezzo di neurotrasmettitori chimici attivanti (adrenalina), mentre altre producono “rilassamento” con l’immissione nel sangue di altri neurotrasmettitori.
L’attivazione è regolata dal sistema nervoso autonomo “simpatico”, mentre il rilassamento è regolato dal “parasimpatico“. I due rami del sistema nervoso autonomo funzionano in modo indipendente dalla nostra volontà e, nella fisiologia sana, in modo alternato; quando il simpatico ci muove verso l’attività, solo svolgendo questa attività e dando libera espressione alla carica energetica che tale attività richiede, avrò un segnale “chimico” che dal simpatico rimbalza al parasimpatico e che mi aiuterà a recuperare, con il rilassamento, l’energia consumata; viceversa, quando avrò avuto un recupero energetico ottimale, il parasimpatico rimbalzerà al simpatico in modo che si possa nuovamente passare all’azione.
4. La paura immobilizza (e inibisce)
Riprendo l’esempio della paura, collocandola nello sviluppo del bimbo, soprattutto nei primi anni di vita. Il bambino che prova questa emozione nei confronti degli adulti di riferimento non può, in realtà, né fuggire né lottare. Il suo corpo sente l’attivazione che la paura provoca, ma tale attivazione viene bloccata, congelata nel corpo, e con essa l’azione relativa (fuga o attacco) per la quale il corpo era stato attivato. Questo blocco si attua sotto forma di tensione e contrattura muscolare. Ecco che il bimbo agisce per difendersi dalla paura e dal dolore con la contrazione muscolare e il conseguente congelamento dell’azione. Tali risposte fanno parte del repertorio automatico, con cui il corpo si anestetizza dal dolore emotivo e fisico. Sono quindi una difesa funzionale alla sopravvivenza; questo finché con la reiterazione di tale tipo di esperienza emotiva, la risposta diventa automatica e coinvolge tutti gli eventi paurosi concreti o immaginati, fino alla completa scissione dell’esperienza emotiva e del suo significato mentale, impedendo il collegamento consapevole dell’evento e dell’attivazione provati all’esperienza della paura. In quel caso il corpo dell’adulto proverà tutti i sintomi della paura senza riconoscerla e si impedirà, in modo inconsapevole, di fronteggiarla attaccando o fuggendo.
Il soggetto avrà quindi trovato un modo, inizialmente funzionale per difendersi dalla paura ma, il processo utilizzato, chiamato inibizione dell’azione da Henri Laborit che l’ha studiata a fondo, avrà prodotto, nel tempo, un disagio emotivo forte con conseguenze importanti sul benessere corporeo e sulla qualità delle relazioni che sperimenta. Con la reiterazione del processo di inibizione dell’azione, il ciclo dell’emozione si scompagina profondamente: il soggetto proverà un’attivazione (simpatico) bloccata (parasimpatico) – i due sistemi non lavoreranno più in alternanza ma sovrapposti – e fronteggerà le sue esperienze in questo modo inconsapevole sia delle azioni che blocca che del significato emotivo primario di questo blocco.
Ciascuno di noi autoregola la propria attivazione corporea, arousal, in modo che tale attivazione rimanga dentro una gamma di esperienze percettive ed emotive che possa permettere di stare comodi emotivamente senza paura di disorganizzarci. Per esempio, molto spesso la collera intensa, produce la paura di “uscire da sé”; oppure la tristezza prostra in modo così profondo, da farci temere la perdita della nostra capacità di autoaffermarci. Per evitare ciò, l’unità funzionale mente-corpo lavora in modo inconsapevole e consapevole, per garantirci un’attivazione che ci faccia stare bene. Bere il caffè al mattino, come sfregarci gambe e braccia, oppure raccontarci mentalmente spiegazioni al nostro star male davanti alla rabbia (giustificazioni, razionalizzazioni ecc.) sono strategie di azione che producono una regolazione dell’arousal che sta alla base dell’innesco emotivo utilizzando le due strade fondamentali di innesco dell’emozione: la prima, bottom-up e la seconda, top-down.
Cosa succede se abbiamo inibito l’azione? Succede che il range di arousal che mi permetto di sperimentare è contratto rispetto alla misura che mi permetterebbe di star bene. In pratica, non sperimento fino in fondo la mia paura, la mia rabbia o la mia tristezza, perché ho imparato a fermarmi prima inibendo l’azione. Tale azione, se fosse stata vissuta, mi avrebbe permesso di uscire dallo stato emotivo sperimentato e di accedere all’esperienza complementare, completando il ciclo emotivo.
Se il bambino ha paura, deve poter attaccare (accedendo alle energie del sistema “simpatico”) e poi piangere (attivando il recupero energetico del “parasimpatico”) e quindi essere consolato (azione riparatoria dell’adulto che permette l’integrazione positiva dell’esperienza). Solo così, il bambino sperimenterà in modo completo l’emozione, vivendola fino in fondo e non bloccandola. Se ciò non accade, vivrà con una finestra di tolleranza dell’arousal contratta e sarà come avere poche sfumature emotive con cui colorare le esperienze che vive. Da qui alla sofferenza emotiva il passo è breve.
5. Affrontare la sofferenza emotiva con la biosistemica (ed essere felici)
Di fronte alla sofferenza emotiva la biosistemica interviene cercando di ripristinare il corretto funzionamento dell’emozione. Il mediatore del processo è il corpo che è al centro delle attenzioni del counselor e/o psicoterapeuta biosistemico. Là dove l’inibizione dell’azione ha scisso l’esperienza emotiva, il metodo biosistemico prova a ricucire lo strappo dando parole ai corpi (“non so perché mi sento così male“) e corpi alle parole (“le mie parole sono di rabbia ma il mio vissuto corporeo non la vive perché è congelato“). La cassetta degli attrezzi dei biosistemici integra diversi strumenti:
- comunicativi e/o relazionali (empatia corporea, identificazione, azione vicariante);
- espressivi (attivazione, rilassamento, focusing);
- rappresentativi (drammatizzazione e tecniche teatrali) tutti finalizzati a ricucire lo strappo della scissione promuovendo il benessere corporeo ed emotivo.
È facile pensare nel contesto attuale che le emozioni siano ingombranti e poco funzionali. Molta parte della nostra cultura e, soprattutto, dei nostri stili di vita, relega le emozioni in spazi ben definiti, ad esempio l’arte e le professioni dell’intrattenimento – e le autorizza in soggetti che le possono vivere nel quotidiano, in riferimento a status peculiari: l’infanzia, l’adolescenza, la maternità, la disabilità ecc. Le emozioni dell’arte e dello spettacolo non sono però assimilabili a quelle con cui facciamo i conti nel quotidiano. E, appare evidente, che l’emotività concessa e autorizzata è vissuta a livello soggettivo e sociale come un vulnus, una sorta di debolezza da cui occorre emergere nel più breve tempo possibile.
Abbiamo poco tempo anche per piangere nel lutto e, quel che appare vincente, è la capacità di rimettersi in gioco a prescindere da quel che emotivamente ci accade; come a dire: delle emozioni si può fare a meno, complicano solo la vita. Questa ingiunzione educativa e sociale è però boicottata dal nostro corpo che ci manda segnali precisi di malessere.
È in questa dimensione corporea dell’emozione “incarnata” che gli esseri umani realizzano in senso pieno la loro umanità. Ed è nell’emozione incarnata che la biosistemica esprime il suo contributo alla realizzazione della nostra umanità.
Alcune risorse
Antonio Rosa Damasio, L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, 1995, Adelphi Milano
Jerome Liss, Maurizio Stupiggia, La terapia biosistemica. 2000, Franco Angeli, Milano
Henri Laborit, Elogio della fuga, 1990, Mondadori, Milano